STRA (Venezia) Museo di Villa Pisani, dal 13 dicembre 2024 al 16 marzo 2025. A cura di: Francesco Trentini, testi di: E. Carli, G. Marconi, F. Orsati, F. Trentini, catalogo Edizioni: ephemeria
Nella sua itineranza artistica di autentico wanderer dello sguardo e dello spirito, Giorgio Cutini approda a Villa Pisani. Non un caso, bensì un incontro d’elezione quasi che entrambi, il fotografo e il misterioso organismo della Pisani fossero da tempo in cammino, l’uno verso l’altra. Sì, perchè nel suo intenso percorso di ricerca Cutini ha incominciato abbracciando la dimensione del fotogramma involontario e recuperato, nelle sue verifiche degli anni Settanta, e poi è giunto al definitivo “passaggio di frontiera”, per citare il titolo del manifesto firmato assieme a Gianni Berengo Gardin, Mario Giacomelli, Enzo Carli e altri, per una fotografia di sconfinamento e di superamento di ogni precostituita certezza teorica e tecnica.
E non è forse vero che la singolare villa in forma di palazzo edificata dalla famiglia veneziana dei Pisani tra 1721 e 1756 invoca – con la sua capacità di disorientare i suoi ospiti attraverso giochi ostinati di duplicazione e simmetria – uno spirito disposto a vivere e addirittura cantare la definitiva perdita di un riferimento rigido per bagnarsi definitivamente nell’acqua mai identica a se stessa del divenire?
È un Canto delle stagioni, l’intervento di Cutini a Villa Pisani, dove le stagioni accadono e si dissolvono, ma nel loro donarsi esigono dagli uomini la capacità di accoglierle. Per Cutini sono i tempi dell’intima biografia di un’anima, ma anche i tempi dell’essere al mondo, quello che gli antichi portavano a simbolo mediante l’immagine delle età dell’uomo. Stagioni che sconvolgono con la loro eccedenza, come la primavera nel suo erompere, e gettano in una vitalistica necessaria inquietudine di cui scatti come Viale delle idee (1994) sono traccia e testimonianza; stagioni che si ergono maestose fecondando con la loro alterità la solitudine dell’Umano; e poi stagioni di silenzio e di quiete. Ma c’è un albero al cuore delle stagioni cantate da Giorgio Cutini; una presenza che sta di fronte all’umano, alla quale ritornare con fedeltà: “Ci resta forse un albero là sul pendio, che ogni giorno possiamo rivedere; ci resta la strada di ieri e anche l’adusata fedeltà a un’abitudine, che in noi s’è intanata, è rimasta, e non se ne andò” (Rilke, Elegie, I 13-16). Una liturgia è un’abitudine necessaria all’umanità per situarsi nel mondo e nella vita. Una liturgia è quella che determina il movimento di Cutini verso la radura e la pianta della serie Piena di te è la curva del silenzio (2017) o verso il crinale montano di Egl’io (2023).
C’è il movimento del soggetto e quello della macchina da presa, nella fotografia di Cutini. Il tutto a dire di un dinamismo della vita che per l’artista non può e non deve essere costretto entro quella immobilità forzata imposta dalla ricerca del nitore del contorno. L’essere immoto non è del vivente, cui invece è data – e torna Rilke – la misura del dissolversi diffondendo presenza: “Una volta e mai più. E noi pure una volta. Un’altra mai più. Ma questo essere stati una volta, essere stati terreni, sembra irrevocabile”. (Rilke, Elegie, IX 14-15). Perché costringere la vita a simulare la morte? È questa la domanda esistenziale lanciata da Cutini al mondo, allo spettatore, alla sua stessa macchina da presa. L’abbozzo di risposta è la scoperta che solo una visione limitata della tecnica fotografica può accontentarsi di ritrarre i corpi animati come fossero immoti e senza vita. E così forse soltanto le montagne silenti, e solo nella transizione tra bianco e nero assoluto, in alcuni scatti, si offrono a Cutini persino affilate entro una trama di linee sottili e tese.
Al fondo di tutto, c’è l’abbandono dell’inganno consueto, la paura quasi di muoversi con disattenzione nel mondo già interpretato (supremo rischio dell’essere al mondo e non essere più vivi secondo la Wislawa Szymborska di Disattenzione), un insopprimibile desiderio di epifania del reale. Ciò che rimane avviene nello stupore. In Del Silenzio per frammenti (2024) Cutini canta il canto già consegnato da Rilke all’ultima quartina di Ich fürchte mich so vor der Menschen Wort: “Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani. / A me piace sentire le cose cantare. / Voi le toccate: diventano rigide e mute. / Voi mi uccidete le cose”. La fotografia si fa ascolto teso, accoglienza. Messo a tacere il rumore di un quotidiano opaco, si affacciano da una soglia fatta di luce abbacinante o di oscurità gravida di promesse tanto la figura del padre dell’artista (immagine all’origine dell’avventura fotografica di Cutini) quanto i profili ora dolci ora scoscesi dei Monti Sibillini.
Ma in Requie(m) decide di spingersi in acque giammai percorse; e lo fa con lo stesso spirito che aveva guidato Jacopo Bassano nel dipingere quell’eccezionale testamento artistico che è l’Adorazione dei pastori nella chiesa veneziana di S. Giorgio Maggiore. Anche in quel caso, ad esclusione dell’abbacinane dettaglio del bambino Gesù squillante di luce, un’inquadratura riempita di nero assoluto da cui solo uno sguardo fatto di tempo è in grado di lasciar affiorare forme e figure, resti di un mondo altrimenti inghiottito dal buio. In Cutini è la più estrema delle “verifiche”. La risposta al clamore di una proliferazione visuale destinata al consumo immediato è un’immagine lenta, solo appena emergente in forza di un minimo rialzo tonale dal fondo oscuro di uno scatto drasticamente sottoesposto, a dire di una quasi-negazione dell’epifania dell’immagine in un tempo di esasperata proliferazione di sollecitazioni visuali senz’anima. C’è tutta la promessa di una nuova primavera dello sguardo, in quest’attesa d’immagine di nuovo pronta a offrirsi come miracolo presente. Perché, in definitiva, Cutini lo sa: “Ciò che resta lo fondano i poeti” (Friedrich Hölderlin, Andenken, v. 59).
Francesco Trentini