Nocciano (PE), Castello, casa Baronale, 1 luglio – 30 luglio 2022, a cura di Antony Molino
“Figurarsi il tempo”
Qualcuno di noi avrà ancora la fortuna, magari non ancora pienamente apprezzata, di godere della visione notturna di un cielo stellato. Di quelli pieni, come un quadro di coriandoli di Tano Festa, su sfondo nero, dove la mano felice dell’artista, come un bambino a Carnevale, gettava e fissava sulla tela grappoli di stelle di carta. Mentre guardo un quadro simile di Festa che ho in collezione, mi torna in mente un professore di scienze delle scuole medie, o forse ero già alle superiori, che per spiegare la velocità della luce (circa 300.000 km/h), ci faceva capire che una stella osservata in cielo poteva non esistere più, dato il tempo inconcepibile necessario alla sua luce per attraversare il cosmo e arrivare ai nostri occhi. Confondendomi non poco, voleva farmi comprendere – facendo ricorso alla metafora di una fotografia – che quanto vedevo era, in un certo senso, un’immagine del passato. Ovvero: l’oggetto del mio vedere, qui e ora, era non solo altrove, ma talmente lontano del tempo da non esistere più. Eppure lo vedevo. Ma vedevo il passato, qualcosa che non era più; e vivevo, anzi, in una specie di foto! Mi sovvenne allora, già da ragazzo, che con l’avverbio “lontano” si era soliti pensare ad una distanza fisica, nello spazio; eppure, già il linguaggio comune, con l’accezione di una distanza nel tempo, rivelava di esser sceso a compromessi, e chissà da quanti secoli, con la lezione di Einstein, per cui abitiamo una dimensione, quello dello spazio-tempo, cha ancora sfugge alle ordinate dei nostri sensi e alle intersezioni dei nostri circuiti neuronali. Il problema, immenso, di ordine letteralmente cosmico, era di figurarsi il tempo. I più non se ne occupano, e meno male, più di tanto. Ma c’è chi quel problema – anzi, quella sfida – lo soffre. Anche felicemente. E ne fa una missione, elevando ad arte il proprio interrogativo.
Giorgio Cutini si misura da decenni col problema del tempo. La sua ricerca evidenzia da sempre una tensione che ricorre all’artifizio di una apparente figurazione per catturare, o forse soltanto sfiorare, qualcosa di effimero, di impalpabile; per raffigurare tratti anche impietosi ma infine grandiosi dell’esistenza. Il fotografo, si sa, per mestiere si misura con l’attimo, con la danza della luce, con la fugacità dell’ombra come di un umano sorriso. Per definizione si vorrebbe che l’immagine che fissa abbia a che fare con l’ambizione di fermare in qualche modo il tempo, ma Cutini a questo giochino dell’esteta non ci sta. Non per niente alcuni cicli della sua fotografia sono dedicati a città che si vorrebbero “eterne” come Roma e Napoli, città invece stra-documentate anche per il loro degrado e cedimento al tempo, ma di cui Cutini si appropria per operare un progetto di sovrapposizioni e stratificazioni visionarie che confluiscono in una specie di archeologia del tempo. Il tempo in questi scatti non solo “fugge” irrimediabilmente ma si anima, è come se attraversasse l’opera. E nel proprio attraversamento lo si “vede”. Così raffigurato, in un certo senso, il tempo in Cutini vive. E a proposito di attraversamenti, segnalo una delle opere iconiche del Maestro, La città di Jo Kut, omaggio del Maestro a Italo Calvino e al suo capolavoro Le città invisibili. Così ne scrive Marina Guida, curatrice della mostra omonima al Palazzo delle Arti di Napoli nel 2018:
I suoi soggetti sfumati e fuori fuoco… narrano di un movimento instancabile… in un altrove, in un luogo ed in un tempo che prescindono dalle coordinate spazio-temporali razionali… Ci troviamo in presenza di un tracciato sincopato, un sentiero di attimi sospesi, in cui ogni immagine si fa pausa, percezione, ascolto, pulsazione.
Invocando anche la proverbiale atemporalità della dimensione inconscia dell’esistenza (cosa di cui questo psicoanalista può soltanto gioire!), Guida conclude la sua presentazione alla mostra napoletana insistendo su “l’unico imperativo” dell’opera di Cutini: ovvero, di lasciar fluire. Si capisce, credo, come quell’imperativo, non solo artistico ma anche esistenziale nasca – necessariamente, e tanto più per il fotografo – da un presupposto etico: di sapere, anzi, di dovere, figurarsi il tempo.
Cutini è uomo colto, che a parte Calvino ha omaggiato con alcune sue opere importanti artisti quali Alberto Burri, Alberto Giacometti e Lucio Fontana, per citarne solo alcuni. Magistrale tra queste è l’altra sua opera iconica: l’immenso Omaggio ad Alberto Burri, del 1991, dove una solitaria e assorta spettatrice di un cellotex di Burri, collocato in alto presso gli ex-seccatoi di Città di Castello, è colta da dietro, in controluce, sola, immobile, sovrastata dall’opera di fronte alla quale sembra essere incantata, allunata in una dimensione dove il silenzio è pari soltanto alla potenza del chiaroscuro dispiegato da Cutini e dove il tempo, fermo, è partecipe rispettoso del silenzio… Qui, comunque, mi preme sottolineare che da uomo colto qual’è Cutini ha frequentato anche la poesia. E mentre medito il suo rapporto col tempo, che oserei chiamare la nucleare ossessione della sua fotografia, non posso non pensare ad un momento della sua produzione ancora non fruibile dal grande pubblico. Penso alla sua lunga amicizia e fruttuosa collaborazione con il grande poeta marchigiano Francesco Scarabicchi, prematuramente scomparso nel 2021. Ebbene, nell’arco di questo fraterno sodalizio, è una coincidenza che Cutini abbia donato il proprio talento non tanto per illustrare, ma per complementare visivamente, in totale sinergia con la poesia di Scarabicchi, libri d’arte che hanno come titoli Frammenti dei dodici mesi e Frammenti dei giorni e delle stagioni? Figurarsi il tempo, quindi, sempre e ancora, persino nella sua frammentazione.
Ed è proprio con una breve ma preziosa nota inedita di Scarabicchi (1951-2021), intitolata “La muta dedizione” e preparata per la presentazione, nel 2015 ad Ancona, di una plaquette d’arte dedicata al fotografo perugino, che mi fa piacere chiudere la mia introduzione al lavoro di questo grande maestro della fotografia contemporanea. Nelle parole del poeta: “Questi sono alcuni appunti che ho preso e che si affidano come premessa al mio trittico per Giorgio Cutini, Luce Distante, che consta di un acrostico, di un poemetto in nove distici e di un frammento di prosa lirica.” Per l’epigrafe al frammento Scarabicchi cita Pessoa: “Il mondo esterno esiste come un attore su un palco: sta lì ma è un’altra cosa”. Chi ha orecchi per intendere, intenda…
“Non è la verità evidente del reale quel che si offre ai nostri occhi, ma il suo sembiante. Un’altra cosa. Apparenza, quindi. Il verbo giusto per dedicarsi all’invito di Cutini è ‘alterare’, ‘svisare’ come in un’improvvisazione jazz, sapendo che la realtà non è ‘quella che si vede’, ma il suo ostinato contrario, direzione da cui un oggetto o una figura “fuggono” letteralmente per farsi imprendibili e non limitabili nell’ordine composto delle cose.
Tempo, musica, acqua, vento, spazio, terra: ecco alcuni ‘sostantivi’ che si presentano sulla scena del racconto per stimolare il rintocco, per scandire quel che la mente trova sulla soglia, la vibrazione, il brivido che passa per un autoritratto, per una fontana, per un paesaggio, per tre alberi in fila, tutti slittati via dal centro, da quel ‘mettere a fuoco’ che sembra una sorta di richiamo all’ordine percettivo e linguistico e appunto per questo da trasgredire. Nessun sostantivo ha valore sacrale o mitologico. Ogni testimonianza d’esso è legata ai moti dell’animo, al referto d’esistenza e d’esperienza, a ciò che dentro di noi si imprime, a ciò che lascia traccia.
Non è un dato tecnico e stilistico, ma un’altra forma del pensare e del sentire, un’intuizione che rammenta un lontano libro di Andrea Zanzotto, Dietro il paesaggio (1951), dove quel che si vede non è il vero, ma il suo sembiante in quanto è da cercare il ‘rovescio’, il paesaggio latente, quello che sta ‘dietro’, in un altrove tutto da svelare. Ho considerato, negli anni, come Cutini abbia camminato perseguendo una meta non dichiarata ma limpida nel suo immaginarla e luminosa perché sempre dalla parte dell’impressione, della meraviglia, dell’emozione, dello stupore. La partitura che lega l’immagine è lirica nella sua asciuttezza, nella sua essenzialità, nel lessico e nella grammatica degli occhi…”
Antony Molino