“Frammenti dei dodici mesi” (2010) Poesie di Francesco Scarabicchi
Cercano il vero. Strano incontro, quello tra le poesie di Scarabicchi e le fotografie di Cutini, segnato da un diverso rapporto con la tecnica, bensì piegata a due modi di metterla a frutto, quello dell’immagine chiamata a fermare il tempo ma che sembra rifiutarsi all’impresa, e quello della parola che – come in un libro d’ore o in un Barbanera (Chiaravalle è in provincia di Ancona…) – invece intende fermarlo, cantarlo.
Se l’immagine commenta il verso o se è il verso a commentare l’immagine, è opportuno non saperlo, è bene lasciare aperto il campo alle suggestioni che vengono dal contrasto tra la luce e le messi, tra il lampo che smuove l’improvviso e il fuggiasco, quel che sta dietro e in mezzo e che è la luce a fermare, e quel che invece è lento e scandito, che è mese e coltura, cammino e sonno, fatica e sapore.
Chi si mette al servizio di chi? Entrambi, il poeta e il fotografo, non hanno intenzione di sopraffarsi ma neanche di mescolarsi. Il sentiero è da percorrere ciascuno con i propri mezzi, l’incontro è nel comune amore e nella comune attenzione per i tempi, della natura, dell’esistenza. Per i mesi e la loro operosa o silenziosa diversità. Per i momenti che li definiscono e differenziano. Per le aperture che ne scaturiscono alla canzone e alla riflessione.
Le stagioni non sono soltanto una metafora, sono una realtà concreta di fatti e di cose che arrivano e che scompaiono, che si accendono e che si spengono, che si mostrano e che si nascondono; ma sono anche un realtà di sensazioni e di sentimenti, di chiaro e di oscuro, di ragionabile e di incomprensibile. Il dialogo è allora, fitto e necessario, tra il verso e l’immagine, e paradossalmente sembra a volte ribaltato: l’immagine allude e la parola dice, e non, come spesso accade, il contrario.
A unire è, si sarebbe detto una volta, la buona terra – il legame saldissimo con un contesto naturale prima che umano, ma da cui l’umano sembra uscire purificato delle sue scorie storiche e sociali, e tornato all’origine, o meglio: a un passato non ancora contaminato da una cattiva modernità.
Questa terra è le Marche, con i suoi geni tutelari lontani e vicini, finalmente placati, il Leopardi più alto, martoriato dalla natura ma che non può fare a meno di amarla, e il Giacomelli dalle radici snodate, dei campi e delle colline, degli elementi.
Certamente le poesie di Scarabicchi e le fotografie di Cutini possono spingersi in altri territori, tuttavia non metropolitani, ma certamente sono “collocate”, rubano da luoghi reali la loro capacità di allargarsi alle dimensioni più ampie, di parlare per altre nature e per altri anni. Per altre luci, altre penombre, altre ombre. Non si illuminano però d’immenso, non barano con le facilità del bel canto, ma perseguono il senso, e si ostinano nel guardare e scrutare, per interpretare e capire.
Cercano il vero, “la verità invisibile del mondo”, in ciò che non sta fermo e che continua. Che il verso e l’immagine possono, sia pur fuggevolmente, penetrare. Sanno che il mondo non si ferma, nonostante. Che la vita continua, nonostante. Che altre stagioni verranno con i loro altri bagliori, anche se l’uomo, forse, non le vivrà né vedrà né canterà. Goffredo Fofi