Jesi (AN), Palazzo Bisaccioni, 19 – 27 novembre 2022, poesie di Francesco Scarabicchi, testo di Massimo Raffaeli, presentazione di Gilberto Marconi
“Visibile e Invisibile”
“e la notte azzurra ardeva/ seminata di stelle”
F. S. da Antonio Machado, Pegasi, bei pegasi
Elementare nella sua classicità, la poesia di Francesco Scarabicchi mette per iscritto la memoria del tempo o una sua traccia, nella persuasione che passare attraverso la memoria corrisponde a valicare il presente: tutto ciò che è stato, dunque, non è più se non nel luogo esatto del ricordo che, in un perpetuo hic et nunc, realizza la parola poetica. Scandire la temporalità, nominarne il decorso e riconoscerne le stazioni occupa il nucleo essenziale anche nella produzione estrema del poeta, a partire dai Frammenti dei dodici mesi editi a Brescia dall’Obliquo nel 2010 (con uno scritto di Goffredo Fofi e le foto di Giorgio Cutini) per essere poi riassorbiti e integrati nella sezione mediana del suo libro immediatamente postumo, La figlia che non piange (Einaudi 2021), con il titolo complessivo Frammenti dei giorni, dei mesi e delle stagioni. Ma qui va aggiunto come fra i progetti che la malattia aveva impedito al poeta di portare a compimento, di primaria importanza era la pubblicazione del testo intermedio, Frammenti dei giorni e delle stagioni, ancora accompagnato, come si trattasse stavolta di un suggello fraterno, dalle foto di Giorgio Cutini per un volume, infatti, da anni pronto per la stampa: perciò questa edizione, o anzi questa coalescenza di prossimità e riguardo, equivale anche a un gesto di necessaria restituzione.
Né potrebbe essere più chiaro l’explicit secondo cui “per quel che nasce, quel che piano muore” e si tratta di un verso a due ante simmetriche e perfettamente bilanciate nel moto circolare che designa la temporalità nei termini di un moto reciproco in cui si alternano pieni e vuoti, reflussi di alta e bassa marea, fissità del mai-più e slanci del non-ancora. Scarabicchi è un lirico puro, il suo dettato è in verticale sui dati dello spazio-tempo, la sua voce non ha alone né eco ma essa è netta, pronunciata da dentro, scandita da una pulsazione naturale, per cui la parola traccia la scia di un sentire ma nello stesso tempo è il suo argine e la custodia al presente. La sua immagine virtuale allude a una clessidra, vale a dire a una vicenda dell’eterno ritorno, di un metronomo e insieme di uno stillicidio dove i soli fatti rappresentano le azioni primarie dell’essere al mondo, i sentimenti basali dell’affetto, dell’amore, della amicizia, in un esistere che di continuo alterna “il suo solstizio eterno, il suo equinozio”. O insomma ciò che il poeta battezza, in un esergo davvero memorabile, “la verità invisibile del mondo”.
Non è mai possibile illustrare la poesia e meno che mai la poesia di Scarabicchi. Infatti Giorgio Cutini sceglie con limpidezza la postura di colui che medita per immagini la parola del suo amico ed entra in dialogo con lui nei modi di un originale contrappunto. Cutini non segue la linearità del verso ma volta a volta ne riconosce un elemento e lo interroga per iscriverlo nella sua personale grammatica di fotografo. Come è suo costume, l’immagine evade all’origine ogni inerzia naturalista per insistere invece sui traccianti della percezione e, nel qual caso, sulla luce stagionale che investe tutte le presenze, sia le cose sia, meno spesso, gli esseri umani. Opposto e complementare rispetto a quello del poeta, lo sguardo del fotografo affonda in un suo liquido amniotico che vela l’invadenza del reale mentre ne coglie gli spessori friabili, ora scendendo in una luce morbida ora invece issandosi verso il nero più denso e bitumoso. La firma di Cutini è infine il suo flou inconfondibile, il quale è filtro ad un vedere troppo invasivo ma è anche protezione e custodia dello sguardo: detto in una sola parola, è pudore e come tale si riflette nei versi e prima ancora nel carattere di un poeta (lo ha detto con precisione, nel suo necrologio, Massimo Recalcati) il cui tratto elettivo, un vero e proprio crisma di civiltà, è da sempre il ritegno.
Qui i versi prevalenti sono endecasillabi disposti in acrostici o in distici e, quanto a ciò, rimane memorabile per i superstiti la sera del giugno 1981 in cui Scarabicchi, un anno prima del suo esordio ufficiale, fu la seconda voce di Giorgio Caproni invitato, nella sala grande della Provincia, dal suo maestro Franco Scataglini per il programma di “Ancona Poesia”. Lessero insieme la Litania per Genova con i distici a cadenza estatica, precipite, e fu quello un autentico passaggio del testimone e tuttavia Caproni lì forniva una nomenclatura suggestiva, un catalogo, viceversa Scarabicchi dà oggi nome a uno status esistenziale. Parla dal luogo dove ancora pulsa una luce residua, un vivido e imprevisto frammento siderale, come volle un poeta da lui amatissimo: è questo il luogo in cui l’immagine del visibile e la parola dell’invisibile possono incontrarsi.
Massimo Raffaeli