Senigallia (AN), Atelier41, 24 febbraio – 30 maggio 2023, a cura di Serge Plantureaux, testo di Flavia Orsati
“In principio era l’albero”
Sono un albero davanti al proprio sfondo,
una sola delle mie molte bocche,
quella che per prima tace.
R. M. Rilke – Dalla misura delle stelle
Immaginate una radura appenninica, una giornata indefinibile, nebbiosa e solare allo stesso tempo. Astraetela. Dimenticatela. Rimarrà impressa nella mente una forma indistinta, ricordo di qualcosa di non vissuto ma rammemorato, trasfigurato, proprio perché sconosciuto. Ignoto ma presente, quindi universale. Ora, in un punto di questa piana, campeggia un albero. Un albero-uomo, antico e presente, compendio simbolico di tutta la Natura e del suo divenire. Qui comincia la nostra storia. Una storia inscritta in un flusso extratemporale, che si svolge sempre e mai, ovunque e in nessun luogo, in cui qualsiasi sentimento o emozione umana diviene condivisa ed eterna, incarnata non dalla caducità del corpo fisico, che se ne fa tuttavia emblema, ma dalla sacralità assiale dell’albero, espressa come allegoria.
Tale individualità, nella magnifica serie scattata da Giorgio Cutini, si esprime con campi energetici e di forza che invadono metafisicamente tutta la natura circostante, di cui l’elemento arboreo diviene cartina di tornasole. Così, il reale, investito da un processo disconoscitivo, viene recuperato ma ridotto a frammento presente ab aeterno e, proprio in virtù di ciò, riesce a fare a meno dell’umanità, sublimata in una consistenza incorporea più alta tramite uno spiccato lirismo fotografico; la vita psichica risulta, dunque, assolutamente libera di esprimersi grazie alla capacità poietica ed intuitiva del fotografo.
Gli scatti della serie in oggetto, infatti, vedono tanto la rarefazione del paesaggio quanto la sua manifestazione in maniera assoluta, in modo tale da riuscire ad annullare l’elemento umano, man mano che i sentimenti si affermano, grazie alla registrazione inconscia di tracce mnestiche, di vibrazioni collettive. Per cui, questo albero, pilastro tra terra e cielo, punto di congiunzione tra umano e divino, si fa correlativo oggettivo di una vasta gamma di emozioni, di moti dell’animo che rendono l’umano tale, intuendo nella Natura qualcosa di proprio e annullando i confini che intercorrono tra l’espressione cerebrale, di cui il mondo odierno è malato, e quella intuitiva, prediscorsiva, espressa con sfocature, dissolvenze e scale di grigi.
Attraverso inquietudine ed euforia, odio e curiosità, passando per abbandono e ribellione, per spiritualità ed oblio, il flusso energetico tra uomo, ormai fitomorfo, e pianta, ormai antropomorfa, non si ferma solo al visibile, ma avviene analogicamente anche nel sottile, tra le radici vegetali e l’anima, senza più confini o spazi semantici tra l’uno e l’altra. Si tratta, dunque, di una trama di corrispondenze di baudelairiana memoria, in cui l’albero è tale non tanto come forma quanto come essenza. La distanza tra soggetto ed oggetto è, quindi, annullata grazie al riconoscimento di un segno profondo che scardina la percezione, aiutato dall’essenzialità del bianco e nero. Alla luce di ciò, l’albero è libero di manifestarsi nella sua potenza di archetipo, palesando un isomorfismo essenziale tra umano e vegetale, nella verticalizzazione di un messaggio simbolico che l’uomo, urla, silente, al cosmo.
Nella Natura l’uomo intravede istintivamente una dimensione in cui, procedendo a ritroso, egli si confonde nell’albero e quest’ultimo nel primo, tanto che i loro confini corporei quasi si annullano: “Quando si sente che ‘vedo la montagna’ ‘la montagna mi vede’ ‘la montagna vede la montagna’ e ‘io mi vedo’ sono equivalenti, si sa cos’è il campo di energia” scrive Elémire Zolla nel suo magistrale saggio sul sincretismo. La distanza, dunque, della diade uomo/albero negli scatti è annullata, poiché conoscitore, conosciuto e conoscenza si fanno un tutt’uno, grazie al profondo legame ontogenetico che arriva ad alterare, se non invertire o, addirittura, annullare, quello gnoseologico tra umano e vegetale. Questo complesso fenomeno spirituale e psichico avviene spontaneamente nelle foto della presente serie: l’uomo vede l’albero ma è anche l’albero che vede l’uomo, ed entrambi, appartenendo ormai ad un sistema non duale, conoscono se stessi. Il rapporto tra significante e significato risulta quindi invertito: le immagini si caricano energeticamente di significato, sconfinano al di là del significante, che non riesce più a comprenderle ed incasellarle. Ed è proprio in virtù di questo legame che l’elemento antropomorfo può scomparire, perché presente energeticamente nel sottile.
In più, l’albero rappresenta, per l’uomo, una sorta di rêverie: nel suo trascorrere ciclico del tempo, attraverso la rinascita primaverile, la vita estiva, lo sfiorire autunnale e la morte simbolica invernale, l’uomo trova contraltare psichico alla sua percezione del tempo, non circolare ma eminentemente orizzontale. L’albero infatti, a livello simbolico, in praticamente tutte le culture del globo, da quelle nordiche a quelle vediche, da quelle persiane a quelle americane, si presenta come un’epitome della natura tutta, come un ponte eretto tra il basso della terra e l’alto del cielo, pilastro tra la stazione solare e quella lunare; contiene in sé le stagioni, il fluire circolare delle età e della vita nella linfa della radice; esso orienta il divenire e lo umanizza, esprime la verticalizzazione di un intenso messaggio simbolico, tanto che, come sottolinea l’antropologo Gilbert Durand, “il ruolo metamorfosante del vegetale è in molti casi quello di prolungare o di suggerire il prolungamento della vita umana”. Prendiamo lo scatto intitolato Inquietudine: qui i due elementi risultano del tutto fusi, tanto che l’uomo si fa tronco e i rami prolungamento sinaptico dei pensieri e delle emozioni; in Solitudine, invece, la visione è talmente onirica e sfocata che non è più possibile distinguere le presenze, si annullano, essendo la sensazione della desolazione elevata e totalizzante: nella solitudine è inevitabile che l’elemento umano non vi sia, non essendo presente a se stesso. Diversa è Curiosità: il cielo, cosparso di nubi, si affaccia a scorgere l’albero-uomo, a tentare di carpirne i segreti più intimi, portando egli stesso il peso del cosmo, che non potrà mai disvelare. Infine, l’Abbandono sembra essere conseguenza della Collera: dalla potente manifestazione cratofanica che porta ad una perdita della ragione in maniera così totale da sfocare il reale, si arriva a riflettere sulle proprie azioni, quando – forse – ormai è troppo tardi. All’uomo allora non resta che guardare, isolato, più in alto, il solito albero ormai distante, mentre in una sovrapposizione di piani e in un intreccio di sensazioni la vallata si deforma, il reale perde di sostanza, ad un passo dal subire un danno esiziale.
Gli esempi citati sono solo alcuni, ma si potrebbe fare un discorso a parte per ogni scatto. Ciò che importa comprendere tuttavia è che ogni immagine cristallizza l’icona di una sacralità in cui il sentimento avvolge lo spazio ricreato dal tempo e rappresenta il farsi materia di un processo che porta a percepire le immagini come presenze, in continuo sconfinamento tra mondo interiore e mondo esteriore: ecco il ruolo del paesaggio. Nell’entrare in questi epifanici interstizi emozionali, è chiaro che ognuna delle fotografie scattate da Cutini diviene macrocosmo assoluto in quanto l’emozione, estrinsecata dal titolo, si fa la sola esistente ma al contempo preludio alla prossima, manifestandosi come una sorta di ipostasi sentimentale e guidando un processo che riesce a compiere il miracolo: astrarre il reale mantenendo la figuratività, senza alcuna differenza tra la foglia che cade o la palpebra che si chiude.
Flavia Orsati