Fermo, Palazzo dei Priori, maggio – luglio 2009 a cura di Enzo Carli, presentazione di Jean Claude Lemagny
Giorgio Cutini. La danza delle forme.
Tra i numerosi paradossi che fanno la vita della fotografia c’è quello che non conosca il tempo, che rifugga al suo flusso ma che, nonostante questo sappia, esprimere il movimento. Cutini, cacciatore d’immagini, si mette all’agguato dell’istante dove il movimento sarà subito immobilizzato, e per tanto sentito come un movimento. Come se, l’essere stato improvvisamente fermato nel suo slancio, il movimento si concentrasse, rimbalzasse su lui stesso. Cutini ha fatto delle belle immagini che riposano nella loro immobilità: la finestra rettangolo d’ombra nel muro inondato dal sole, con la calma evidente di un quadro di Mondrian. Ma è più vicino alla sua ricerca personale quando, osservando le pietre, ci scopre la danza della materia rose dall’erosione.
Le strutture intime del minerale, disseccato dalla pioggia e il vento, cominciano ad attorcigliarsi su loro stesse, a danzare. Altrove Cutini registra e mostra questi rapidi passaggi di luce che lasciano la loro traccia nera sulla superficie sensibile, dove affiorano come un’ala d’uccello. Gesto d’un braccio, riflesso furtivo,volto che si cancella per il suo eccesso di prossimità: non lo sappiamo e questo non ha alcuna importanza perché qui non è il soggetto che conta ma è la realtà stessa che fa la fotografia, carezze di luce che sferzano di nero lo spazio e fanno balzare delle forme enigmatiche.
Sarebbe superficiale di ricondurle a un gioco a due dimensioni. Questo sarebbe non lasciare il dominio del decorativo. La qualità è qui di fare vibrare lo spazio in tutta la sua profondità.
Le parole non seguono più quando l’arte suggerisce e domina lo spazio, perché allora è più fedele alla sua natura, ben aldilà del linguaggio.
La meraviglia è che più la materia grezza sia presente davanti a noi, tale “scroscio del di fuori ‘eterno ” (Maurice Blanchot), più la poesia prende la sua ascesa e ci trascina verso il sogno, come i fiori che crescono dal humus nero ci dice Gaston Blachelard.
Da Cutini penso a quei vetri bagnati, a quei parabrezza dell’auto dove indoviniamo una strada lucente, qualche albero confuso a l’entrata d’un tunnel. Poesia di quello che accade, intensa, legata al nostro mondo moderno e che mi fa’ pensare a quella sequenza geniale, in Roma di Fellini: dei volti che passano e ripassano, misteriosi, dietro le portiere bagnate di pioggia, in ingorghi dove il tempo si trascina e ritorna su lui stesso
Ogni scatto di Cutini esclama con la stessa intonazione di Pessoa: “Il tempo!Il passato! […] Ciò che sono stato e non sarò mai più. Ciò che ho avuto e non riavrò!”; ogni fotogramma implica la sequenza eterna – ieri, oggi, domani, – come se l’istante fissato possedesse in sé la nostalgia di quel che era, di quel è, di quel che sarà. Solo un’istintiva e consapevole vocazione a visitare il proprio universo interiore di figurazioni e sentimenti permette un’altrettanto estrema, coerente e vibrante espressione di quell’universo che si offre all’udienza dello sguardo come un’insistita variazione sul tema, plurale in virtù della sua singolarità, al largo d’ogni idea di conclamata bellezza che viene a interrogarci – nel cuore dell’inquietudine e della meraviglia -, se mai ci appartenga, perché anch’essa esiste in quanto manca, intravista nell’assenza, attesa sulla soglia del desiderio, struggente e ignota, sempre alle spalle, increspatura, vela che appare e scompare, fruscio, onda, sogno dentro un sogno.
J. C. Lemagny