Ascoli Piceno, Palazzo dei capitani, novembre 2009 a cura e presentazione di Francesco Scarabicchi
“Per Giorgio Cutini”
Il mondo esterno esiste come un attore
su un palco: sta lì ma è un’altra cosa. Fernando Pessoa
“…Ogni oggetto dello sguardo di Giorgio Cutini è còlto e toccato dalla trama del pudore, da un incedere graduale, discreto e fermo, da una particolare attitudine ad accostarsi alle presenze umane, vegetali, minerali, a un luogo eletto fra gli altri, ad un transito o ad un oggetto che chiede la provvisoria salvezza dal nulla. La speciale virtù del sentire favorisce lo scampare dal fuoco dei minuti, dall’ardere perenne, brace del percepire nella fedeltà, riva del pensiero sensibile, sponda e argine d’un riposato guardare che ha percorso tutta intera la via del brivido, della tremante ansia di non perdere quel pulviscolo di chiarore e d’ombra, di vago mistero all’orlo della parvenza, bandita ogni didascalia che non dica ciò che preme…”
“…La fotografia di Cutini è lirica perché l’universo delle emozioni che lo abitano e lo impegnano è lirico, perché il suo lessico, la sua grammatica, la sua sintassi sono lirici e perché egli si addentra e c’invita ad un’intimità di esperienze che hanno prima avuto lui come ospite “grato” e che – in virtù di quella “riconoscenza” – raggiunge l’altro sull’orizzonte del racconto che si popola e si anima dal di dentro della stessa immagine accolta dal nido della mente, convinto com’è, Cutini, che la forma dello stile sia un atto di deliberata scelta inevitabile che solo un crinale di continua “crisi” determina e contempla…”
“…Cutini è in totale complicità con la poesia, la pedina, la ospita, la incita, se ne fa ascoltatore insonne, ne coniuga le trame e la difende sul punto esatto della sua precarietà. In questo, probabilmente, la parentela con un’arte verticale che tenta la discesa alla radice del senso dell’esistere, sancita da una parallela verticalità che configura la longitudine del suo operare, del consegnarsi integralmente al versante dell’immagine dal di dentro del suo mondo nella perfetta corrispondenza tra intenzione e coscienza, tra tensione e “sogno di una cosa”, tra slittamento dal codice realistico e disegno del “fine ingegno” che riconduce a quel grado d’incandescenza per cui è dato consegnarsi come “servitore” di una necessità che si fa forma, che toglie dal nulla e dall’immaginario le visioni per concretarle nello “sviluppo” di un processo che solo dopo la sua origine sensibile sarà figlio anche della tecnica…”Francesco Scarabicchi